A cura di Michele Lo Foco.
Le commissioni che da mesi erano attese e che sono destinate a favorire lo sviluppo della cinematografia e delle occasioni festivaliere sono state designate.
Ma con quale criterio?
Per capire bene lo sviluppo delle direttive è necessario tornare indietro di molti anni, alla legge 1213 che ha retto ferreamente il settore per decenni e che, se fosse ancora in vigore, avrebbe evitato il disastro del nostro cinema.
Allora le commissioni di esperti valutavano i film “terminati” e non le intenzioni filmiche; i membri erano indicati direttamente dalle categorie, in modo tale che la commissione fosse rappresentativa di tutti gli operatori del settore: produttori, distributori, esercenti, attori, ministero.
I film, divisi in rulli, venivano visti dalla Commissione nella sala cinema del Ministero e, se approvati, diventavano fruitori di premi governativi pari al 13% dell’incasso. La logica era semplice: se un film ha incassato molto vuol dire che il produttore è bravo e pertanto va sostenuto e aiutato. I contributi erano pertanto un incentivo industriale.
Oggi, grazie al lavoro sotterraneo dell’allora direttore Blandini, le commissioni vengono nominate discrezionalmente dal Ministro, senza bandi, senza riferimenti diretti, senza responsabilità.
Oltretutto devono valutare i prodotti, nel caso più noto, a partire dalla sceneggiatura e dalle intenzioni del regista, sulla base di dati scritti, di budget e di elenchi: un salto nel buio come si può vedere dai risultati, ma nessuna conseguenza rispetto alle delusioni finali.
Il problema non è solo questo, ne esiste uno peggiore:
Qual è il criterio alla base delle designazioni?
Nessuno, vige quel sistema ben collaudato in Italia che si chiama caos e sotto il quale si nasconde il germe di una terribile deformazione che va sotto il nome di “discrezionalità”, cioè “metto in commissione chi mi pare, chi è ben raccomandato, chi è amico degli amici, chi ha bisogno di occuparsi, chi mi sta simpatico, chi può manovrare”.
Così nella lista dei componenti appare a sorpresa uno dei produttori più favoriti del sistema, Riccardo Tozzi, già presidente Anica e specialista in strategie dietrologiche, che insieme alla produttrice di Opzetech, Tilde Corsi, dichiara che si occuperà del bene del settore e non del proprio. Non ci credo.
Appare Marzullo, e non mi dilungo sulla designazione (si descrive da sola); appare la signora Rummo, recuperata non si sa in quale ufficio polveroso, donna di estrema sinistra, come quasi tutti i componenti; appare una dipendente di Lucisano, al posto di una dipendente di Lucky Red, in definitiva una gazzarra che si regge sulle spalle dell’unico esperto, l’avvocato Gianfranco Rinaldi.
La commissione precedentemente indicata da Sangiuliano, aggiustata da Giuli, è composta in gran parte da giornalisti anzianotti e fuori contesto, certamente non disposti a passare le giornate a leggere sceneggiature o budget, e allietata da una bella signora di Modena, senza altri titoli che quello di compagna della contessa Cicogna.
Anche questa commissione si regge sulle spalle della veterana delle valutazioni, Selma Dell’Olio.
Se la situazione del cinema italiano fosse diversa da quella che è, un lento smottamento verso il baratro, con i film migliori che arrivano a malapena a 1 milione di incasso, questi aspetti della più totale discrezionalità, frullati nel caos, non sarebbero così devastanti.
Ma dopo un anno intero senza alcun versamento statale e senza alcuna prospettiva, con il Tax Credit che ancora scorre sotterraneo per lubrificare gli ingranaggi delle società più accreditate, più straniere, più sfacciate, dopo l’incredibile scandaloso corrispettivo concesso ai registi dei film più cari, dopo l’inevitabile débacle del cinema italiano, dopo tutto questo le commissioni sono le ciliegine sulla torta con le quali festeggiamo il fallimento di una politica che dello spettacolo non sa cosa farsene.
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